Formata da un gruppo di storici per lo più giovani, «Contesti» si propone come un esperimento, un tentativo di cogliere la complessità attraverso un’analisi in profondità delle relazioni e degli scambi, spesso nascosti, fra uomini e fra istituzioni. La sua finalità è la ricostruzione di specifici contesti, non necessariamente caratterizzati dalla condivisione di uno spazio definito, ma definiti dalle connessioni, esplicite o sotterranee, di cui si può provare la pertinenza. Ispirata ai metodi della microstoria, «Contesti» intende indagare i fenomeni sociali come esito dell’interazione continua fra scelte personali e strategie politiche, meccanismi economici e circolazione di idee, sistemi culturali e comportamenti individuali. Aperta ai contributi di ogni disciplina, presenta in ogni numero, a cadenza semestrale un corpo di ricerche di prima mano, dedicate a casi di studio che spaziano tanto nel tempo quanto sotto il profilo geografico; una intervista a studiosi che hanno innovato i paradigmi dei loro rispettivi campi di studio; una sezione di discussioni incentrate su un’opera letteraria o cinematografica, o un saggio, che ha scandagliato nuove possibilità d’analisi della realtà sociale.
Ai nostri lettori. Al pari delle altre scienze umane, la storia ha perduto da tempo molte del-le sicurezze che ne avevano accompagnato il cammino. Di conseguenza, ha visto diminuire la propria capacità di rispondere alle nuove domande che lo scorrere del tempo pone al passato dell’uomo. È come se fosse rimasta attonita di fronte all’impetuosa trasformazione dello scenario in cui viviamo da qualche decennio. La fine del comunismo, la crisi dello stato-nazione, il presunto tramonto delle ideologie, la globalizzazione, il relativismo culturale hanno messo in crisi le tradizionali gerarchie di rilevanza dello storico, e soprattutto dello storico occidentale. Il quale, oggi, sembra rimanere incerto fra due posizioni, tanto divergenti fra loro quanto sterili. Quella di chi, confondendo ciò che è successo nel passato con le immagini e le conoscenze di ciò che è successo, è rimasto intrappolato nelle sabbie mobili del postmodernismo, finendo così col legittimare qualsiasi memoria parziale e sovrapporre storia e fiction. E quella di chi, disorientato dalla comparsa sulla scena di nuovi attori che rivendicano un loro spazio e pongono domande nuove, si è rifugiato nell’ortodossia d’antan, replicando, magari in forme sempre più raffi-nate, modelli e procedure di analisi rassicuranti e tradizionali. Sembra dunque di es¬sere immersi nello stadio finale di una delle fasi cicliche della storia della scienza: quella in cui, come ci ha insegnato Thomas Kuhn, si studiano tutte le possibili strade per accordare i paradigmi alla realtà, ma lo si fa in modo sempre più calligrafico. La sensazione è dunque che si continuino quasi meccanicamente ad applicare paradigmi formulati in tutt’altro contesto per rispondere a tutt’altre domande. Così facendo, però, si rischia tra l’altro di incorrere nel peggiore dei difetti della storia: l’anacronismo.
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